Finalisti del Premio Calvino XXVI edizione

Riporto qui di seguito i finalisti del Premio Italo Calvino XXVI edizione, sperando di leggere il mio romanzo “Casa Bruiswiq” tra i segnalati di giugno : )

L’Associazione per il Premio Italo Calvino è lieta di rendere noti i nomi dei finalisti della XXVI edizione:

Domenico Dara, Breve trattato sulle coincidenze
Carlo De Rossi, Il ventre della regina
Andrea D’Urso, Nomi, cose e città
Marco Magini, Come fossi solo
Francesco Maino, Cartongesso
Stefano Perricone, La donna dell’uomo che girava in tondo
Simona Rondolini, I costruttori di ponti
Carmen Totaro, Le piene di grazia

 

Le opere finaliste del 2013: uno sguardo d’insieme.

Il Comitato di lettura, fra cinquecentosettanta concorrenti, ne ha selezionati otto, dopo letture incrociate e numerose discussioni. Due sole le donne in finale, ma di straordinaria intensità di scrittura e di pensiero. Si tratta in genere di testi complessi, di inconsueto valore e di indubbia originalità. Talora non si può neppure parlare di romanzo, ma sicuramente di letteratura, come nel caso di Cartongesso, un’appassionata invettiva contro il degrado antropologico, paesaggistico e linguistico dell’odierno Veneto ex miracolato (ma in realtà il discorso si allarga all’Italia tutta) che trova inedite forme espressive nelle quali i vari registri si fondono e si confondono. Emergono spezzoni e frammenti di dialetto, come in altri due testi: il Breve trattato sulle coincidenze e Le piene di grazia . Il primo, dal profumo d’antan, è l’opera sicuramente più lieve e garbata, a suo modo deliziosa, percorsa da carsiche nostalgie. Un postino, amante di cabalistiche coincidenze, cerca di intervenire nelle vite degli altri, alleviando sofferenze e favorendo amori, in un paesino calabrese un po’ fuori del tempo. Le piene di grazia è invece un testo di potenza drammatica e di azione condotta all’estremo. Parte da un fatto di cronaca nera e si snoda colmo di efferatezze: l’”osceno” è in scena in una Puglia dall’aura criminale dove la criminalità si insinua nelle pieghe del quotidiano. Ciò che dà un tocco singolare, e insieme spaesante, al testo è la grana gelidamente oggettivante della scrittura, pur nella sua postura femminile. L’autrice, non a caso, è una donna, come donna è l’autrice di un altro testo densissimo, I costruttori di ponti. La protagonista, di famiglia altoborghese ‒ un perfetto esempio del complesso di Elettra: ama il padre e odia la madre ‒, realizza dapprima una full immersion nella musica di Mahler eseguita dal padre direttore d’orchestra, per poi annullarsi in una macabra esperienza lavorativa ‒ resa con icastica e allucinata evidenza ‒ in un’azienda che tratta carne di coniglio. Solo alla fine riuscirà a recuperare un incerto e fragile equilibrio. Ne La donna dell’uomo che girava in tondo lo stile è merito precipuo, in un lungo monologo magistralmente condotto. Una sorta di parabola in cui la protagonista, prima bambina poi adulta, dopo una serie di peripezie è rigettata, alla fine, nell’ingrata situazione di partenza: il pirandelliano “come tu mi vuoi” potrebbe essere il suo motto, ma il suo inesausto adeguarsi agli altri non la porterà alla salvazione. Brancola nel buio anche il narrante del Ventre della regina, un educatore che cerca la propria via d’uscita in una caleidoscopica assunzione di maschere e di esperienze ‒ a sfondo spesso erotico (il ventre della regina è appunto il caldo e traditore grembo di una femme psichiatra) ‒, fin quasi a perdere la nozione del sé. Professionista del sesso è lo gigolò le cui avventure sono narrate in Nomi, cose e città. Suo logo, per così dire, è una smagata sprezzatura, un’intelligenza cattiva, una malinconia verso un passato che riaffiora a intermittenza, il cui simbolo è il gioco infantile cui allude il titolo. Donne mature, più o meno abbienti, lo vedono come lo strumento per realizzare i loro inconfessati desideri o magari semplicemente il loro inconfessabile desiderio di affetto. Una scrittura nervosa valorizza perfettamente quest’epica di un eroe dei nostri tempi, un eroe del libero mercato. Come fossi solo ci precipita nell’incubo del massacro di Srebrenica, raccontato da tre personaggi: un giudice del Tribunale penale internazionale, un soldato olandese del contingente Onu di interposizione, un miliziano serbo-bosniaco. La forza del libro è nella materia stessa e nell’abilità dell’autore di penetrare nelle tre psicologie con somma sinteticità; riuscitissima la rappresentazione della violenza etnica, cui tutti sembrano destinati a subordinarsi, in un vortice di ataviche pulsioni e di cedimenti della volontà. Anche qui, comunque, è in scena un’umanità mentalmente fragile e indifesa, pronta a discendere la china dell’autodissolvimento e della rinuncia a scegliere.

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